francesco codagnone
L’Intelligenza artificiale (Ai) ci ruberà il lavoro? Fare previsioni è difficile, ma il dato certo è che robot e algoritmi sono già entrati negli uffici, e operano in mezzo a noi. In alcuni casi al fianco degli uomini, aumentandone la produttività. In altri – ed è il timore di molti – al loro posto. «La questione non è “se”, ma “come”: come adattarci al cambiamento e come creare nuovi posti di lavoro. L’Ai può farci immaginare futuri inimmaginabili: ma deve essere la macchina al servizio dell’uomo, e non l’uomo al servizio dei robot» mette in guardia John Shawe-Taylor, direttore del Centro di Statistica computazionale all’University College di Londra.
Massimo esperto di machine learning e membro del team Unesco sullo sviluppo sostenibile dell’Ai, Shawe-Taylor è tra i relatori che ieri sono saliti sul palco della XII edizione di Trieste Next, festival della ricerca scientifica che si chiuderà oggi tra incontri didattici e divulgativi con lo sguardo rivolto a «Un mondo nuovo», come recita il titolo dell’evento. Un mondo in rapida evoluzione e in cui – volenti o nolenti – dovremo imparare a convivere con il progresso tecnologico.
«La buona notizia è che l’Ai può sostituire il nostro impiego con uno più interessante: libera il tempo e la creatività delle persone, offre nuove opportunità. La cattiva – ammette Shawe-Taylor, che ieri ha dialogato con Aifric Campbell, scrittore, e docente di Scrittura creativa all’Imperial College London, e con Teresa Scantamburlo, docente di Etica digitale a Ca’ Foscari – è che per fare le stesse operazioni presto ci vorrà meno forza lavoro». In pochi istanti infatti l’algoritmo valuta milioni di dati sui quali un commercialista avrebbe lavorato per settimane.
L’Ai è dunque capace di estrarre informazioni, ma oltre a leggere i dati ragiona sempre meglio. E di recente ChatGpt – chatbot basato su Ai e apprendimento automatico, specializzato nella conversazione con un utente umano – ha anche rivelato di essere in grado di generare immagini e video, oltre che parole. Il lavoro di intere categorie – dagli impiegati agli illustratori – si teme – «potrebbe essere a rischio». E arrivano anche le prime stime: la banca d’affari Goldman Sachs ha previsto che l’equivalente di 300 milioni di posti di lavoro a livello globale sarà esposto all’automazione. «L’avanzamento tecnologico renderà il lavoro più efficiente – conferma l’esperto -: eliminerà impieghi superflui, ma ne creerà di nuovi».
In che modo avverrà l’integrazione o sostituzione tra uomo e macchina? Lo spiegano le regole di mercato. Shawe-Taylor offre un esempio: «Fino a qualche anno fa i programmatori impiegavano intere giornate per scrivere una singola riga di codice, mentre l’Ai permette di compilare un programma in una frazione di secondo». Maggiore efficienza si traduce in maggiore qualità, ma anche in prezzi sempre più bassi: «L’Ai potrebbe ridurre i posti di lavoro, poiché – spiega Shawe-Taylor – lo stesso codice richiederà un solo informatico e non più dieci. Oppure i prezzi più bassi comporteranno una maggiore domanda: nasceranno quindi nuove aziende». È dunque «un’equazione difficile da risolvere» che richiederà uno sforzo collettivo: «Il programmatore, al pari di designer e colletti bianchi, dovrà adattarsi alle nuove tecnologie: il punto è quanto velocemente possiamo inventarci nuovi posti di lavoro, e come riqualificare le persone».
E se l’Ai imparasse a fare anche quello? Le sofisticate capacità degli algoritmi ne fanno concorrenti impossibili? «È una domanda da un milione di dollari» risponde Shawe-Taylor, senza però abbandonarsi al pessimismo: «L’Ai può farci arrivare laddove non riusciamo da soli: può aiutarci, senza sostituirci, a immaginare futuri inimmaginabili e fare progressi nella scienza, nella medicina, nell’apprendimento. Il nodo è utilizzare la tecnologia a nostro ausilio, e non al nostro posto». La scelta sul futuro dell’Ai, conclude l’esperto, è nostra: del resto, «siamo noi a programmarla».